La mia Maratona, di Umberto Pignatelli
La mia Maratona, di Umberto Pignatelli

Domenica, come tanti, ho corso la Turin Marathon.

 Come per alcuni di questi, questa e` la mia prima maratona. Ho iniziato la preparazione ad Agosto nel caldo afoso, senza immaginare minimamente come sarebbe stato, in Novembre, correre i 42 km.

 Ma andiamo con ordine.

Una settimana prima iniziano i sogni. Chi mi conosce sa che sono una persona emotiva. La domenica prima sogno di essere alla partenza, e di avere le scarpe allacciate l’una con l’altra allo start. Il lunedi` notte le scarpe sono allacciate correttamente, ma sono incollate al pavimento. Il martedi`… insomma potete immaginarlo da voi. Sappiate solo che in almeno uno di questi sogni ho perso il chip all’arrivo.

 

Vivo male la settimana antecedente alla gara. Il mio sonno e` costellato da incubi e mi alleno poco, non vorrei arrivare stanco alla gara. Mia moglie, incinta di otto mesi, mi guarda con una preoccupazione che non riesce a celare. Gli amici che hanno gia` corso la maratona mi danno dei consigli, tutti utili.

Arriva domenica. Al mattino passo nel mio ufficio (a un tiro di schioppo dalla partenza), sfrutto il bagno e finalmente vado allo start.

Un mare di gente. Da ogni parte. Le scarpe sembrano essere a posto, nessuno le ha legate tra di loro a mia insaputa e colla sul selciato non pare essercene.

Mi guardo intorno, sperando di vedere qualche faccia amica ma non vedo nessuno. Tutti sono molto meno vestiti di me, penso di aver fatto un primo errore e questo mi restera` in testa per i primi chilometri.

Cerco di concentrarmi ma la partenza arriva di botto, senza nessun avviso. Vabbeh, si va.

Proprio sulla linea di start vedo Andrea Vieta e Danilo Spaccasassi. Saluti, in bocca al lupo. Spero di correre con loro almeno un pezzo, ma li perdo subito.

I primi chilometri non hanno storia (avro` caldo? avro` freddo? per ora corri e basta). La gente e` allegra, sembra che si stia andando tutti a una festa.

Piu` o meno al quarto km, uno spettatore dice ad alta voce al vicino: “Li vedi questi? La meta` si ritira.” Volano i vaffanculo per tutta la colonna ma li superiamo ridendo.

Al decimo chilometro sto bene, ma sento nascere una piccola, piccolissima bolla sul mignolo del piede destro, una specie di capocchia di spillo.  (“Non ci badare” penso).

Attraversiamo paesi festanti, e piano piano raggiungo i pacer delle 3:50 e li supero, senza sforzo, senza forzare. Fin dall’inizio cerco di contare i chilometri a due a due, e questo mi aiutera` molto.

 

 Attorno al ventesimo (il decimo nella mia testa) sto proprio bene, l’unica cosa la piccola capocchia di spillo e` ora una nocciolina. Ma non ci bado. Bevo il mio Enervit, non salto nessun rifornimento e vado avanti.

Sono troppo vestito come pensavo prima? No, da questo punto in poi sento un leggero freddo, che sentiro` strisciarmi addosso per tutta la gara.

Dal ventecinquesimo in poi capisco che la cosa si fa seria. Qualcuno inizia a fermarsi. Io sto bene, ma sento un po’ di fatica, e divento guardingo, rallento il passo: siamo appena oltre a meta`.

 

Ora la bolla maledetta si fa sentire per quello che e`: nella mia mente la vedo ingigantirsi sempre di piu`, finche` al ventottesimo sento una specie di strappo. Chissa` perche`, penso di aver sfondato un calzino con un dito (in realta` e`la bolla che si e` rotta). Ma continuo. Attorno a me la gente inizia a fermarsi sempre di piu`. Vedo una ragazza distesa a terra che piange a bordo strada. Un atleta di colore massaggiato vigorosamente da un allenatore. I bambini ci incitano, una coppia di signori mi da una zolletta di zucchero (la mangio e penso: “E se fosse avvelenata?” “Chissenefrega, mi basta sopravvivere fino all’arrivo”).

Da qui in poi guardo sempre meno il Garmin. Guardo anche meno la strada.

A distanza di un giorno, se dovessi dire per quali vie sono passato, non lo saprei dire.

Il mio piccolo universo personale collassa, diventa lo spazio, infinito, tra un rifornimento e l’altro, tra un bambino che ti vuole dare il cinque e la solita vecchietta che deve attraversare proprio mentre stai passando tu.

Non mi fermo, anche se vorrei. Ho il timore che mia moglie, al traguardo, si preoccupi se ci metto troppo ad arrivare. Un cane, al guinzaglio del padrone, mi osserva passare con sguardo curioso. Sento uno strano sciaquio arrivare dalla scarpa destra, ma lo confino al limitare delle mie percezioni.

Al trentacinquesimo ho deciso che non ce la faro`: sette chilometri sono troppi. Forse ne faro` ancora due. Giusto fino al prossimo spugnaggio. Allo spugnaggio arrivo e quasi mi fermo. Da qui sono solo piu` cinque. E poi ho sete. Tra altri tre (cosa vuoi che siano: nella mia mente tremila passi, tremila respiri, qualcosa con tremila) si bevono di nuovo i sali freddi che ti piombano nello stomaco come sassi, ma che in quel momento mi sembrano essenziali come il sangue che mi scorre, freddo, nelle vene.

In qualche modo arrivo al rifornimento. Ne mancano due. Ce la posso fare. Al quarantunesimo mi supera una signora sulla sessantina, grassissima, che ricordo di aver superato al km quattro. Indossa un’improbabile maglia rosa su cui c’e` scritto “So’ Nunzia”. Grande Nunzia, vola al traguardo prima di me.

Giro su piazza Carlo Felice, che percorro ogni giorno, ma oggi potrebbe essere Timbuctu`, da quanto mi sembra diversa e aliena dal solito.

Arrivo in via Roma, e sento la gente da dietro le transenne che mi incita. Mi viene da piangere. Vedo i gonfiabili, e lontanissimo, il traguardo. Rido. Proseguo. Piango di nuovo. Supero via Roma, mi guardo intorno per cercare la mia Marta e la vedo, poco prima dell’arrivo. Non riesco a capire che espressione abbia. Alzo gli occhi al cielo, mani in preghiera, e passo il traguardo.

Ma la mia maratona, non e` ancora finita. Finisce adesso, quando scrivo quest’ultima parola.